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Aspettando la Chiamata di Marzo…

21 dicembre 2011

Macano ancora due mesi alla Chiamata di Marzo… Mi capita di pensare ogni tanto quanto tempo manca alla prossima Chiamata, perchè si fa ogni due anni e la cadenza biennale è un po’ particolare. Quest’anno è stato uno degli anni no, anno dispari, però ormai ci siamo.

Spiegare cosa sia la Chiamata di Marzo è difficile se non sei nato a Recoaro, si rischia di fare confusione con altre cose. Per me è semplicemente la festa più bella del mondo, non ce n’è altra di uguale. Eppure mi rendo conto che i motivi per cui mi ritrovo ad affermare una cosa del genere sono un po’ diversi dallo spirito con la quale la Chiamata è nata, nella notte dei tempi…

Per i nostri avi “chiamare marzo” era una liberazione, la fine del lungo inverno che allora sulle nostre contrade, con le case di sasso, i pendii impervi e le strade poco praticabili era davvero una stagione molto dura. C’era da chiamare marzo, e la primavera che portava con sè, per liberarsi finalmente dal freddo, dalle giornate corte per ricominciare finalmente a vivere.

La Chiamata di Marzo come l’ho conosciuta io, pur mantenendo qualche riferimeno a questa tradizione, è soprattutto un riscoprire il paese, riscoprirne gli usi, i costumi, i vecchi mestieri, tutto quel passato che si rischia di lasciare alle spalle e dimenticare per sempre. E’ riscoprire non solo le proprie radici ma anche la propria identità, perchè sì la Chiamata di Marzo è un rivitare le tradizioni, ma c’è il paese attuale che deve tirarsi su le maniche per farlo.

Mancano due mesi, ma mi rendo conto che sono pochi, pochissimi. Vorrei invitare tanti amici, fare loro conoscere un po’ cos’è questa strana festa a cui li invito con tanto slancio e con tanta insistenza. Vediamo se sarò capace di farlo attraverso questa pagine.

 

25 aprile

25 aprile 2011

Oggi è il 25 aprile e ne ho sentite tante.

Che la Resistenza è servita a niente e la Liberazione non è una vera festa perchè ci hanno liberato gli Alleati, fino a che i partigiani erano tutti eroi giovani e belli.

A casa mia di partigiani veri e propri non ce ne sono stati. Mio nonno era renitente alla leva di Salò, ma di divise e fascisti ne aveva già avuto abbastanza e si nascose sul nel “buso” in mezzo al bosco andando a lavorare nei campi di giorno, per aiutare il padre a mantenere i 4 fratelli minori.

Il fratello di mia nonna era prigioniero in Germania e quasi niente abbiamo saputo del periodo in campo di concentramento. Il cognato di mia nonna si unì per un periodo ad un gruppo di partigiani, ma dopo un po’ se ne andò dai parenti in pianura perchè qualcuno faceva più che altro il gradasso con il mitra in mano che seguire gli ideali che animavano molti. La sua futura moglie – la sorella di mia nonna – faceva la staffetta, ma questa è una novità che mi ha raccontato poco tempo fa mia mamma e che non ho mai saputo.

Insomma, di partigiani veri non c’è stato nessuno, ma tutti condividevano i valori della lotta partigiana. Qui in zona la Resistenza era molto presente, ed erano molto presenti anche i tedeschi: ne sono successe di tutti i colori. La confusione che c’è stata in quel periodo è ancora viva nei ricordi che i vecchi ci hanno tramandato.

C’è chi è pronto a dire che i partigiani ne hanno combinate di tutti i colori, e ci sono storiacce  che purtroppo credo proprio siano vere… E di orrori a non finire ci sono ovviamente dall’altra parte.

Come in tutte le cose non c’è il giusto e lo sbagliato, il bianco e il nero, ma una sfaccettatura di realtà che è difficile riassumere in un solo concetto. Mi sono reso conto di cosa sia stata la Resistenza soprattutto dopo aver letto i Piccoli Maestri di Meneghello, e credo che queste quattro righe che mi sono sentito di scrivere oggi sul 25 aprile siano state quanto mai influenzate da quel libro.

A spasso per i boschi

1 marzo 2011

Ogni tanto in pausa pranzo vado a farmi quattro passi in giro per il mio paese, per boschi e sentieri che non avrei mai pensato di andare a fare. E’ un paio di mesi che ho iniziato a farlo, un po’ con la scusa di tenermi un po’ in movimento anche in inverno quando fa freddo, ma in fondo è una cosa che erano anni che avevo in mente di fare.

A dire il vero le stradine del mio paese le ho percorse tutte in bici per anni, al punto che non mi viene in mente un posto dove non sia riuscito a passare in bici (almeno per le strade asfaltate), tuttavia ogni volta un sentiero o una mulattiera nuova hanno un fascino diverso, la novità della scoperta, di un nuovo punto di vista diverso (magari anche se di poco) da quello abituale e proprio per questo regala scorci ed emozioni nuove.

Quando iniziai ad andare in bici, quindici e più anni fa, poco più che ragazzino, mi affascinò proprio questa cosa: prendere una strada che non avevo mai fatto e scoprire cosa veniva dopo, dove portava, cosa permetteva di vedere. Così negli anni in bici ho girato in lungo ed in largo tutte le colline del mio paese e della mia valle ma ancora conservano un loro charme, esercitano su di me un’attrazione particolare quando esco di qualche metro dalla traccia usuale per andare a vedere cosa c’è oltre il ciglio della strada, dietro la curva, oltre la linea d’orizzonte tracciata da un dosso.

In questi due mesi mi sono ritrovato a scoprire alcuni posti in cui non era mai nemmeno andato e che pure mi sono ritrovato a pensare che i miei nonni senz’altro consocevano bene e di cui mi hanno anche parlato, come per l’esistenza di un sentiero che non avevo mai fatto e che a 30 anni mi sono ritrovato a scoprire con la sensazione che può avere un cittadino quando va a fare un’escursione sulla montagna vicino a casa per la prima volta in vita sua.

E proprio una montagna vicino a casa è stata un po’ la protagonista dei miei 30 anni. Le mie montagne le ho girate in lungo ed in largo, ma alla fine ho sempre avuto un po’ un debole per il Pasubio e, quando avevo tempo di andare in montagna, il più delle volte finivo lassù. Così a Montelfacone non c’ero mai stato, se non a meno di 10 anni in seggiovia, ma lo ricordo solo perchè i miei mi hanno mostrato le foto…

Non mi credeva nessuno quando raccontavo che io, lassù, effettivamente non c’ero mai stato. Così un po’ mi ha preso la voglia di colmare questa piccola lacuna e sono finito a salire in un giorno in cui la nebbia regnava sovrana giù in pianura ma andando verso le montagne spuntava una bellissima giornata di sole.

Su è esattamente come me l’aspettavo. Si vede il mondo, Recoaro è là sotto e se lo consoci bene riconosci tutte le contrade, le strade come se fosse una carta geografica. E poi a 360 gradi c’è il mondo: dalla nebbia nella pianura dalla quale spuntano solo le dorsali delle colline della Valle dell’Agno e più lontani i Colli Berici, dall’altra parte le Alpi.

E’ qualcosa di straordinario riuscire a vedere tutte le cime più note nel raggio di un centinaio di chilometro e porterle riconoscere: da una parte il Brenta, nascosto dietro il Carega, ma soprattutto quella successione mozzafiato di Catinaccio, Marmolada, Pale di San Martino fino al “vicino” Grappa.

E siamo solamente a 1600 metri, dalla prima montagna sulla pianura veneta che quando è sereno, la mattina, riesci a vedere Venezia e la Laguna…

La prima primula di primavera

28 febbraio 2011

Succede ogni anno, in un posto diverso, su una stradina sperduta che non passano mai le macchina ma che a me piace fare oppure sulla strada per salire alla mia vecchia casa.

Quest’anno è capitato una domanica mattina di sole di metà gennaio, risalendo una vecchia mulattiera in mezzo ad un bosco. Due passi prima di un fienile.

Cosa ci faccia un fienile in mezzo ad un bosco è difficile da capire se non si è da qui… Per secoli la nostra gente ha strappato prati e terra da coltivare ai boschi per sopravvivere. Vedi le foto di inizio secolo del paese e ci sono molto più boschi di oggi.

Poi sul più bello stop, finito tutto: è cambiato il mondo, non si vive più del campo e della vacca,  il bosco in un attimo si mangia i prati e i campi.

“Qua segavamo, mi ricordo” mi diceva 20 anni fa mio nonno in due o tre posti.

“Là in fondo, dove ci sono i fagari grandi così, c’era un vegnale e si faceva il vigno con l’uva che cresceva laggù sul Brontale” mi raccontava mia nonna. Ora giù nel Brontale è impensabile ci fosse un vigneto: si va solo per legna.

Ora passo anch’io in un paio di posti e penso “Ma le prime volte che passavo di qui c’era tutta erba” o addirittura ricordo un vecchietto con la falce in mano dove ora c’è, appunto, un bosco.

Ecco allora che quel fienile ha il suo senso, non è una follia umana e così altri su per lo Spitz, appena sopra le Fonti. E ormai anche la mia baita fra qualche anno, quando gli zii anziani non potranno più segare, farà quella fine.

Comunque lì sotto, di fianco ad una fessura di roccia scavata da un rivolte d’acqua così insignificante che ti chiedi come sia mai riuscito a crearla, c’era la prima primula del 2011.

Inconfondibile nel suo scialbo color giallo che solo le primule selvatiche possono avere, con un verde smorto delle foglie e un fiore piccolino. Se guardo qua le primule di mia mamma, grandi, appariscenti, brillanti, pare quasi insignificante.

Eppure è il primo segno che la stagione è in crescere e basta in calare, più del cambio del calendario, più dell’allungarsi delle giornate che mi ritrovo a pensare che è primavera. Vabbè, la giornata di sole caldo (per essere gennaio) un po’ è complice in tal senso, fa ancora tempo a nevicare (ed in effetti nel frattempo è nevicato). Ma quella primula è il segnale che la natura si sta risvegliando e sta riprendendo il suo corso verso una nuova primavera e una nuova estate, che ormai non manca più tanto ad una nuova esplosione di colori, di profumi e di vita.

Ricordi di viaggio (2)

2 novembre 2010

In 650 chilometri di avventure e di emozioni ne ho incontrare un bel po’ come immaginerete. Fin dal primo metro, perchè uscire di casa su a Recoaro è di per sè qualcosa di speciale. Dal primo sguardo alle montagne tinte di rosa all’alba, dalle prime pedalate.

Amo la salita di Campogrosso alla follia ed è sempre qualcosa di particolare farla in bici, nonostante la fatica. E’ una salita di quelle che si fanno con assoluto rispetto, ma di cui conosco ogni metro, ogni curva e sembra per questo meno dura di quanto in realtà non sia. Ogni volta però mi dico che dopo le gallerie, mancando un solo chilometro, posso darci dentro e finire di buon passo, quando in realtà mi pianto sempre quando si inizia a vedere il rifugio che è lì, dopo la curva, dopo l’altra e dopo l’altra ancora…

Campogrosso per noi recoaresi è un posto quasi da favola, lì fra il Baffelan e il Fumante, sotto la Sisilla, ci sembra il centro del nostro mondo che da lassù vedi quasi del tutto (quasi perchè c’è sempre qua e là qualche nuvola), da Campodavanti al Baffelan, dal Civillina al Passo della Lora.

Duecento metri e cambia tutto. Anche noi chiamiamo “passo” per antonomasi il Pian delle Fugazzae, ma Campogrosso è semplicemente il confine, un tempo con l’Austria, oggi col Trentino. Passi di là, duecento metri dopo il rifugio, e si apre la Vallarsa con il suo cielo terso che fa così contrasto con i nuvoloni sopra i vaj del Fumante.

Non mi fermo nemmeno a parlare della Vallarsa perchè è una poesia e le poesie non si possono spiegare (o forse un giorno lo farò, qui), ma bisogna saperne ascoltare la musica.

Anche la Val Venosta ha un po’ di poesia, in una pista ciclabile che sale a tornanti in mezzo alla collina fra prati e meli, in un ponte di legno bianco di brina sul quale la ruota della bici lascia il segno, nei meleti a fianco della ciclabile dove ti perdi anche con un ciclocross improvvisato, in una mela addedanta appena colta dall’albero in un passaggio stretto della valle.

Se penso ai giorni successivi mi chiedo come possa esserci stato un così bel tempo quel second giorno, che a Prato veniva voglia di andare a fare lo Stelvio da com’era blu il cielo e splendente la neve lassù.

Malles Venosta l’ho scoperto incantevole, col suo campanile che a mezo boto è l’unico al mondo a battere do boti (che saranno i due quarti d’ora, ma fa tanto strano uguale), di là di un Agide che (come tutti i grandi fiumi vicino alla sorgente) fa impressione per quant’è piccolo, quasi ruscello.

Quel giorno lo ricordo anche per due incubi, l’incubo di una salita che coi suoi strappi durissimi, uno dopo l’altro, mi ha spezzato le gambe e l’incubo di un paese – Landeck – che non arrivava mai. Mentre la statale, proibita alle bici, scendeva sempre lentamente con pendenza a favore io venivo dirottato sui paesini a mezza costa, su e giù per stradine da perdersi per una trentina di chilometri.

In mezzo la pace e il vento del passo Resia e dei suoi laghi. Il placido lago della Muta con l’Ortles sullo sfondo e le sue nevi, dall’altra il più ondulato lago Resia con l’impressionante campanile di Curon che spunta dalle acque, ultimo resto di un paese fantasma sott’acqua.

Di acqua è fatto il terzo giorno. Eppure da Bludenz sono partito che ancora non pioveva, pur col tempo basso e con l’unica prospettiva che era la pioggia che è iniziata a cadere dopo una mezz’oretta. E pensare che quella mattina pedalavo molto bene!

Così fermami a mettere la giacca, fermami a coprire le borse, fermami a mettere i pantaloni, fermami a fermare i pantaloni attorno alla caviglia, fermami al semaforo a scandire bene “va in mona” ad un vecchietto austriaco che ha tentato di investirmi.

E poi quel maledetto lago che pareva nascondersi, finchè non ho trovato lo sbocco del Reno nel Bodensee. Se del Bodensee non ho un bel ricordo (nel senso che l’ho sempre visto mosso e con le nuvole basse), pur piacendomi molto i laghi alpini, del Reno non posso che dire che è stato un amico, un fedele compagno di viaggio fino al suo termine. Sapevo che seguendolo non avrei sbagliato di molto strada fino ad arrivare a Strasburgo, dopo qualche centinaio di chilometri.

Le sue rive e i suoi boschi hanno regalato le emozioni più belle. Ecco che ti trovi in Svizzera in mezzo ad un bosco su un lungo rettilineo e pensi al più celebre dei tratti in pavè della Roubaix. Amore e odio con gli sterrati svizzeri, bellissimi e quasi romantici da fare, nel loro silenzio e nel loro isolamento totale dal mondo, nel loro fango, ghiaino e foglie che a lungo ho maledetto amandoli.

Perdersi in un’ansa del Reno, in un paese che si chiama Eglisau dove c’è un pescatore che riesce comunque a spiegarti un po’ la strada, e ritrovarsi a mangiare un vero calzone siciliano e bere l’unico caffè vero del viaggio pare quasi assurdo. Eppure c’è una grossa fetta d’Italia dappertutto in Svizzera, soprattutto lungo il Reno.

Quasi mi è dispiaciuto lasciarla in quell’ultima sera di viaggio, eppure le campagne fra Rheinfellen e Basilea mi hanno visto in crisi come non mai. il trovare un’altra maledettissima salitella davanti, non dura ma fin in cima alla collinetta, quasi una distanza infinita, mi ha fatto fermare perchè avevo finito le energie mentali prima che fisiche. Ci sono voluti vari minuti per convincermi a ripartire e stringere i denti.

Sono cose che quando ci ripensi paiono sbiadite, la terribile fatica di quei momenti un po’ te la dimentichi, immancabilmente. Per fortuna.

Altrimenti non sarei qua a sognare e progettare già un nuovo viaggio per l’anno prossimo, pensare quando è possibile prendersi i giorni per andare, preparare la bici per l’occasione, sognare una nuova meta e una nuova follia…

Il sapore di casa

26 ottobre 2010

Erano anni che non stavo via da casa, all’estero, per un paio di settimane, forse dall’ultima volta che ero stato in Belgio, nel 1997.

Così inizi a sentire profumo di casa quando ti lasci alle spalle le pianure e le zonde ondulate del Belgio e della Francia, dove non si vedono che dolci colline all’orizzonte, entrando in Svizzera.

Alpi, montagne, lineamenti e pronunce più dure. Chi l’avrebbe mai detto che sentire il tedesco mi avrebbe fatto sentire un po’ a casa? In fondo mi sento per cultura e mentalità più vicino ad un tedesco (o, nel caso, uno svizzero) che agli altri popoli latini. Sarà che da noi si parlava tedesco fino all’Ottocento, che eravamo Austria, che le montagne lì dietro casa ci portano in un attimo di là delle Alpi…

Viene un po’ da ridere che anche la tastiera tedesca che ho usato per mandare le mail agli amici sia molto più vicina alla nostra rispetto a quella francese, che è una babele di lettere e segni di punteggiatura che paiono buttati lì a caso, come i numeri dal sacchetto della tombola.

Zurigo e Chivasso passi per Bellinzona, Lugano e qualche meravigliosa valle alpina che intravedi per il finestrino; con la neve fresca lì a due passi, gelata sugli alberi che pare brillare al sole di fine ottobre. E ti senti davvero a casa, perchè finalmente sei in montagna, è autunno e c’è la prima neve: basta cielo scuro che in un attimo si apre, basta pianura a perdita d’occhio, basta linee lunghe e lente all’orizzonte.

Poi Milano ti frega di nuovo. Pianura Padana e stazione centrale. “Fassista, funerea ma anche fassinante, come una cattedrale antica” mi viene in mente Marco Paolini mentre cammino sul marciapiede del binario per andare a prendere il biglietto.

Erano correspondances in Svizzera, qui sono solo coincidenze visto che il treno è in ritardo di mezz’ora e non riesco a prendere la coincidenza per Vicenza.

Milano C. (che è Milano Centrale e non Milano Cattedrale per restare in tema di teatro) è oggi un misto fra lo stile fascista che mantiene ancora nei mosaici con tanto di fascio che tuttora persistono e stile sobrio e moderno nelle biglietterie (che – solo qui – distano chilometri dai binari) e nei lunghi tratti di tapis roulant. Pensi a Zurigo HB, così impressionante e bella, aperta lungo i fianchi che arrivi in treno e ti si affiancano le macchine e i tram, e quasi ti viene da ridere.

Poi è la solita tiritera di Pianura Padana che di casa fa così poco, almeno finchè non arrivi a sentire nomi familiari: Desenzano-Peschiera-Verona.

A Verona comincio ad agitarmi, chiudo il libro (che ormai leggere in inglese mentre inizio a respirare dialetto mi pare fuori luogo), preparo i bagagli per scendere e mi incollo al finestrino. E’ nuvolo, le montagne lontane si intravedono appena. Questa è la valle dell’Alpone, questa è quella del Chiampo e si intravede la neve sul Carega.

Passo Montebello e il vago odore di conceria, Nogarole e costone del Faldo lasciano spazio al più bello spettacolo del mondo, a quello che davvero è aria di casa e ti dice che sei finalmente arrivato, dopo tremila chilometri di viaggio, un po’ in bici e il grosso in treno.

E’ tutto nuvolo ma lassù, dove c’è la neve a imbiancare Pasubio e Carega, batte un raggio di sole che pare non essere lì per caso e come mille altre volte pensi che daresti chissà che cosa per essere lassù in quel momento a goderti lo spettacolo.

Non c’è quel sapore di casa nemmeno (ma quasi…) quando scendi dal treno, vedi la prima bici italiana che ha finalmente un cambio Campagnolo e un borsellino Cicli Cornale. Parti e non ci sono più le piste ciclabile, i pedoni hanno paura ad attraversare sulle strisce, le macchine non danno la precedenza e mille altre cose.

Però vedere per un attimo quei quattro sassi lassù ti fa sentire a casa come nient’altro al mondo, e quanto senti la bimba dietro di te sul treno – tutta presa da imparare a tracciare le prime lettere di una lunga carriera scolastica – esclamare “Mamma, guarda che bello là” ti verrebbe voglia di girare e dirle “quella là è casa mia!”

29 dicembre 2009

16 agosto 2010

Qualche anno fa un amico mi disse: “stiamo vivendo in un mondo troppo frenetico, ci svegliamo la mattina e non guardiamo nemmeno le montagne”.

La mia risposta fu “parla per te”…

Se c’è una cosa che non ho mai smesso di fare neanche una volta lasciato Recoaro è stata di guardare verso le mie montagne e sognare di essere lassù. Sempre. Capita nei giorni di sole, nelle notti di luna piena e anche nelle giornate di pioggia, perchè la montagna è bellissima anche quando piove (e magari però siamo dentro ad un rifugio…).

E così il 29 dicembre 2009 sono rimasto folgorato da un’immagine, che volevo raccontarvi quel giorno stesso ma che solo dopo 8 mesi vi ripropongo, preso come sono stato da mille cose del nuovo lavoro avviato proprio in quei giorni.

Quel pomeriggio, verso sera, ritorno a casa per un salto veloce, arrivo alla rotatorio e, quasi istintivamente, lancio uno sguardo sulla sinistra. Perchè da lì si vede perfettamente il Pasubio. E resto fulminato.

Lo sguardo è automatico, di routine quasi, perchè in quella giornata di fine anno non s’era visto un filo di sole e tutto il cielo era pesantemente coperto. E lo era anche in quel momento. Tranne che là, una striscia sottile sopra il Pasubio.

Sono immagini di un istante, che se non hai la prontezza di fotografare subito ti scappano e buonanotte.

Ma quel giorno sono stato fortunato: sono riuscito ad arrivare a casa, a salire sul tetto e fare la foto alle montagne con la loro striscia di magnifico azzurro mentre tutto il resto del mondo era grigio piombo. Simbolico, come non mai.

Meno 7 giorni

21 febbraio 2010

Fra 7 giorni sarà tutto finito. Sì, mancano 7 giorni al 28 febbraio 2010, ultima domenica di febbraio di un anno pari.

A voi non dira nulla, assolutamente nulla. Per un recoarese è invece qualcosa di speciale, e non c’è modo di riuscire a spiegarvi cosa vuol dire. Ogni tanto mi capita di pensare, in qualsiasi periodo dell’anno “mancano tot mesi all’ultima domenica di febbraio del prossimo anno pari, alla Chiamata di Marzo”.

La Chiamata di Marzo è per Recoaro quello che il Palio è per i senesi o quello che la corsa dei ceri rappresenta per Gubbio. Da noi non c’è competizione, da noi c’è un clima che non troverete mai negli altri 729 giorni: la Chiamata di Marzo ci unisci come nient’altro al mondo, più dei mondiali di calcio, più di ogni altra festa paesana.

Vi chiederete cos’è la Chiamata di Marzo, o forse lo avete intuito se siete legati alle vecchie tradizioni e vi ricordate quella del “brusamarso” ecc., la festa di origine pagane con cui i montanari alpini festeggiano la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.

Ecco, da noi Marzo si chiama, si chiama la primavera secondo antiche leggende ormai perse e quasi dimenticate, ma si chiama. Si chiamava con i campanassi delle vacche, con i seci del late…

Sicuramente un momento di festa per la natura e il mondo che si risvegliava dopo i lunghi giorni di neve e freddo.

Come a Recoaro la Chiamata di Marzo sia diventata quello che è oggi è difficile dirlo. Pare che nell’Ottocento i recoaresi abbiano iniziato a sfilare per il paese l’ultimo giorno di febbraio con gli arnesi dei proprio lavori. In alcune testimonianze e foto di inizio ‘900 si vedono dei carri tirati da buoi in cui si rappresentano i mestieri, in cui la casara diventa semovente e sopra si fa il formaggio.

La tradizione stava perdendosi o forse era persa del tutto. Nel 1979 è rinata. Dal 1980 si fa ogni due anni, l’ultima domenica di febbraio: si sfila per il paese con carri su cui si ricostruiscono fedelmente e minuziosamente i costumi di un tempo, i mestieri e gli arnesi, le tradizioni e gli usi di padri e nonni.

Nulla di carnevalesco, tutt’altro: è una ricostruzione fedelissima di come eravamo, fatta in maniera festosa e gioiosa, ma aderente alla realtà come poco altro. I vestiti sono a volte gli stessi dei nostri nonni, recuperati dai vecchi bauli, gli arnesi ritrovati nei fienili, si riprendono i racconti dei vecchi…

La Chiamata di Marzo è la riscoperta di noi stessi attraverso le nostre origini. Ed è per questo il giorno più bello dell’anno, anzi, di ogni due anni.

Ecco perchè stasera, a 7 giorni, volevo raccontarvi della mia trepidante attesa. Che è un attesa che parte molto tempo prima, già l’ultimo dell’anno si inizia a pensare “Quest’anno è pari, c’è la Chiamata”.

Nascere lungo un fiume

11 dicembre 2009

Sono nato in riva ad un fiume (e chiamarlo così è fargli un complimento), in un posto incantato che a descriverlo pare abitato dalle fate, e forse lo è davvero…

Sotto casa una fontana, dove finisce il bosco, davanti un prato in piano in mezzo ad un mondo verticale, un prato dove in primavera venivano a brucare i caprioli e poi lui, il fium, con la sua cascatella, i sasssi col muschio, un paio di belle pozze…

Ora abito sull’altra riva dello stesso fiume, ma 15 chilometri più a valle. Non mi sono mai sentito a casa qui, se non per lui e le montagne che si vedono da lontano. Quell’acqua è passata per il mio paese e sotto la casa dove sono nato per arrivare qui. Sorge nel Rotolon quell’acqua, una frana eterna che mai cesserà di essere frana perchè chi le conosce sa che è così. Ho un vago ricordo dell’asilo: un giorno ci portarono alle scuole del centro, il Rotolon si stava muovendo e c’era pericolo pure per il nostro asilo, quasi in traittoria della frana, pur un po’ più in basso.

Anni dopo fu l’orto di mio nonno a scivolare rapidamente in quel fiume. Un piccolo giardino dell’Eden su un terreno argilloso, il cui destino si sapeva, ma per il quale rimanemmo tutti molto male. Soprattutto mio nonno, per il quale l’orto era la sua vita.

Nonostante tutto non ho mai smesso di amarlo quel fiume. Quando apro la finestra e sento il rumore della cascata della briglia del ponte mi emoziono.

D’estate è secco, l’acqua sgorga sempre su al Rotolon ma la prelevano tutta strada facendo prima di arrivare qui. E allora lo  vedo quasi morto, tutto sassi e arsura…

La visione più particolare, più ancora di quando la scorsa primavera rischiò di tracimare, è quella di qualche inverno fa, completamente ghiacciato e ricoperto della neve che poi era caduta.

I momenti più belli però sono quelli delle notti d’inverno, delle sere autunnali di nebbia, o anche delle lune piene estive. Torno a casa lungo la ciclabile dell’argine, tre chilometri al buio completo, senza una casa né anima viva nelle vicinanze. La bici scorre silenziosa, c’è solo il rumore dell’acqua nata al mio paese, sul Rotolon, che è passata vicino alla casa dove sono nato. E mi emoziono, sempre.

Come ogni autunno

26 ottobre 2009

Succede tutti gli anni, in una mattina di autunno dopo un paio di giorni di pioggia intensa, quando ti rendi conto che è arrivato davvero l’autunno perché tiri fuori il primo maglione della stagione. A volte capita in una giornata di sole talmente limpida che non puoi fare a meno di pensare che sarebbe magnifico poter andare in montagna e da in cima il Pasubio guardare il mare. Altre volte capita in una mattina ancora un po’ nuvolosa, con il tempo che s’è solo alzato un po’ ma non si è ancora aperto del tutto, ma quel tanto che ti permettere di vedere le montagne, come sabato mattina. E poi la vedi, là da una parte sul Carega e dall’altra sul Pasubio appunto: la prima neve stagionale, una calotta bianca sulle nostre due montagne più alte. Uno spettacolo che mancava da molti mesi ma che torna puntuale ogni anno, senza finire mai di stupirti ogni volta. È una neve effimera, di pochi giorni, che se n’è già andata, ma che ti ricorda che ormai è autunno quasi inverno, che le calde giornate estive sono ancora un ricordo e che prima che tu possa tornare lassù su quelle montagne sarà nell’anno nuovo. E un po’ di tristezza questo te lo mette sempre addosso, nonostante il fascino immenso che ha una montagna con la neve.