In 650 chilometri di avventure e di emozioni ne ho incontrare un bel po’ come immaginerete. Fin dal primo metro, perchè uscire di casa su a Recoaro è di per sè qualcosa di speciale. Dal primo sguardo alle montagne tinte di rosa all’alba, dalle prime pedalate.
Amo la salita di Campogrosso alla follia ed è sempre qualcosa di particolare farla in bici, nonostante la fatica. E’ una salita di quelle che si fanno con assoluto rispetto, ma di cui conosco ogni metro, ogni curva e sembra per questo meno dura di quanto in realtà non sia. Ogni volta però mi dico che dopo le gallerie, mancando un solo chilometro, posso darci dentro e finire di buon passo, quando in realtà mi pianto sempre quando si inizia a vedere il rifugio che è lì, dopo la curva, dopo l’altra e dopo l’altra ancora…
Campogrosso per noi recoaresi è un posto quasi da favola, lì fra il Baffelan e il Fumante, sotto la Sisilla, ci sembra il centro del nostro mondo che da lassù vedi quasi del tutto (quasi perchè c’è sempre qua e là qualche nuvola), da Campodavanti al Baffelan, dal Civillina al Passo della Lora.
Duecento metri e cambia tutto. Anche noi chiamiamo “passo” per antonomasi il Pian delle Fugazzae, ma Campogrosso è semplicemente il confine, un tempo con l’Austria, oggi col Trentino. Passi di là, duecento metri dopo il rifugio, e si apre la Vallarsa con il suo cielo terso che fa così contrasto con i nuvoloni sopra i vaj del Fumante.
Non mi fermo nemmeno a parlare della Vallarsa perchè è una poesia e le poesie non si possono spiegare (o forse un giorno lo farò, qui), ma bisogna saperne ascoltare la musica.
Anche la Val Venosta ha un po’ di poesia, in una pista ciclabile che sale a tornanti in mezzo alla collina fra prati e meli, in un ponte di legno bianco di brina sul quale la ruota della bici lascia il segno, nei meleti a fianco della ciclabile dove ti perdi anche con un ciclocross improvvisato, in una mela addedanta appena colta dall’albero in un passaggio stretto della valle.
Se penso ai giorni successivi mi chiedo come possa esserci stato un così bel tempo quel second giorno, che a Prato veniva voglia di andare a fare lo Stelvio da com’era blu il cielo e splendente la neve lassù.
Malles Venosta l’ho scoperto incantevole, col suo campanile che a mezo boto è l’unico al mondo a battere do boti (che saranno i due quarti d’ora, ma fa tanto strano uguale), di là di un Agide che (come tutti i grandi fiumi vicino alla sorgente) fa impressione per quant’è piccolo, quasi ruscello.
Quel giorno lo ricordo anche per due incubi, l’incubo di una salita che coi suoi strappi durissimi, uno dopo l’altro, mi ha spezzato le gambe e l’incubo di un paese – Landeck – che non arrivava mai. Mentre la statale, proibita alle bici, scendeva sempre lentamente con pendenza a favore io venivo dirottato sui paesini a mezza costa, su e giù per stradine da perdersi per una trentina di chilometri.
In mezzo la pace e il vento del passo Resia e dei suoi laghi. Il placido lago della Muta con l’Ortles sullo sfondo e le sue nevi, dall’altra il più ondulato lago Resia con l’impressionante campanile di Curon che spunta dalle acque, ultimo resto di un paese fantasma sott’acqua.
Di acqua è fatto il terzo giorno. Eppure da Bludenz sono partito che ancora non pioveva, pur col tempo basso e con l’unica prospettiva che era la pioggia che è iniziata a cadere dopo una mezz’oretta. E pensare che quella mattina pedalavo molto bene!
Così fermami a mettere la giacca, fermami a coprire le borse, fermami a mettere i pantaloni, fermami a fermare i pantaloni attorno alla caviglia, fermami al semaforo a scandire bene “va in mona” ad un vecchietto austriaco che ha tentato di investirmi.
E poi quel maledetto lago che pareva nascondersi, finchè non ho trovato lo sbocco del Reno nel Bodensee. Se del Bodensee non ho un bel ricordo (nel senso che l’ho sempre visto mosso e con le nuvole basse), pur piacendomi molto i laghi alpini, del Reno non posso che dire che è stato un amico, un fedele compagno di viaggio fino al suo termine. Sapevo che seguendolo non avrei sbagliato di molto strada fino ad arrivare a Strasburgo, dopo qualche centinaio di chilometri.
Le sue rive e i suoi boschi hanno regalato le emozioni più belle. Ecco che ti trovi in Svizzera in mezzo ad un bosco su un lungo rettilineo e pensi al più celebre dei tratti in pavè della Roubaix. Amore e odio con gli sterrati svizzeri, bellissimi e quasi romantici da fare, nel loro silenzio e nel loro isolamento totale dal mondo, nel loro fango, ghiaino e foglie che a lungo ho maledetto amandoli.
Perdersi in un’ansa del Reno, in un paese che si chiama Eglisau dove c’è un pescatore che riesce comunque a spiegarti un po’ la strada, e ritrovarsi a mangiare un vero calzone siciliano e bere l’unico caffè vero del viaggio pare quasi assurdo. Eppure c’è una grossa fetta d’Italia dappertutto in Svizzera, soprattutto lungo il Reno.
Quasi mi è dispiaciuto lasciarla in quell’ultima sera di viaggio, eppure le campagne fra Rheinfellen e Basilea mi hanno visto in crisi come non mai. il trovare un’altra maledettissima salitella davanti, non dura ma fin in cima alla collinetta, quasi una distanza infinita, mi ha fatto fermare perchè avevo finito le energie mentali prima che fisiche. Ci sono voluti vari minuti per convincermi a ripartire e stringere i denti.
Sono cose che quando ci ripensi paiono sbiadite, la terribile fatica di quei momenti un po’ te la dimentichi, immancabilmente. Per fortuna.
Altrimenti non sarei qua a sognare e progettare già un nuovo viaggio per l’anno prossimo, pensare quando è possibile prendersi i giorni per andare, preparare la bici per l’occasione, sognare una nuova meta e una nuova follia…